Questo è un articolo retweettato da un mio collega pallavolista...mi è piaciuto molto. In realtà io penso di non aver talento, ma solo la testardaggine giusta per seguire la mia vocazione!!
"Dopo una nascita occorre darsi un’identità.
E l’identità viene data innanzitutto da una chiarezza con se stessi e da una direzione verso cui dirigersi. Ambizioni per nulla semplici.
La volontà indirizza ed identifica; la volontà tempra e cauterizza.
Si faccia una breve riflessione in merito al Daimon (anima), ed alcuni suoi svolgimenti.
La parola greca daimon viene tradotta animo/anima, ma possiamo intenderla, per semplificare, come vocazione. Nel momento in cui l’individuo coglie la propria vocazione, egli, con impegno e fatica, tenta in ogni modo di trovarla realizzata. Daimon è quindi l’origine delle scelte. Essa è il nocciolo del corpo, la parte più intima e interna (appunto anima); essa diviene, con tenacia e fede totale, il motore ed il motivo delle decisioni e delle volontà dell’individuo. Allo stesso tempo è, quindi, una parte creata e “figlia” dei propri valori.
Si potrebbe, forse, fare confusione con il concetto di talento.
Il talento è al contrario un qualcosa che si trova, latente, già situato e “depositato” nell’individuo. Pericoloso è dunque affidargli il ruolo di motore, poiché esso non viene creato, non deciso e scelto. Credo possa essere, piuttosto, una meravigliosa occasione per la vita, non un motivo di senso per la vita. Sia chiaro: questa meravigliosa occasione non toglie alla vocazione, anzi vi convive e ne amplia le vedute, i margini, i confini, ne sbecca gli spigoli e la colora nuovamente.
La vocazione è una meta. Il talento è un mezzo. Uno dei tanti, per arrivare alla meta. In entrambi (vocazione e talento), dovrà esser necessaria l’etica della fatica e del sacrificio (la fede): quanto più lo sforzo sarà grande, tanto più la realizzazione della speranza (vocazione) diverrà vera ed intesa: “… la speranza è speranza. Essa è veramente tale quando, escludendo ogni forma di possesso attuale ed immediato, si riferisce a ciò che è sempre a venire e che forse non verrà mai, dicendo la venuta sperata di ciò che esiste solo in quanto speranza. Più l’oggetto della speranza è lontano o difficile, più la speranza che vi si afferma è profonda e vicina al suo destino specifico: se ciò che spero è quasi a portata di mano, non ho molto da sperare; la speranza dice la possibilità di ciò che sfugge al possibile” (M. Blanchot, L’infinito intrattenimento).
Talvolta, v’è l’eventualità che talento e vocazione coincidano.
In questo caso si dovrà tenere un’attenzione estrema verso il rischio della “sommersione”. Spiegando meglio: dando valore coincidente al proprio talento ed alla propria vocazione (rendendo entrambi meta), ci si imbatte in un’adesione talvolta ambigua e soffocante. Solo con rigore, consapevolezza e personalità l’individuo non chiude il proprio tempo, non limita la propria eccezionalità, ma riesce ad estraniarsi cogliendo il “fuori da sé”; il rischio è, spesso, quello di chiudere le porte alla realtà preferendo una dedizione totale ad un mondo privato, rarefatto e surreale.
Nel momento in cui una persona vuole qualcosa ha un proprio motivo d’essere e di esistere; la sua forza, nell’arrivare alla “meta”, sarà quella di ri-conoscere se stesso in modo chiaro e costante: intendere la propria volontà, la propria vocazione, la propria essenza, significa possedere un propria identità.
Si concluda con un testo di critica teatrale, riguardante un regista francese, Jacques Copeau: “Copeau ha un’idea molto precisa della sincerità: non è la spontaneità, non è il dire senza mediazioni, immediatamente, quel che si ha dentro di sé. Sincerità è la capacità di costruire un rapporto fra sé e il progetto che si ha di sé, fra l’essere e il dover essere”, tra il vuoto che si è creato dentro di sé e la persona che si vuole diventare."
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