venerdì 7 agosto 2015

USA vs(?) Africa: l'altra faccia dell'informazione




In questo caso non conosco bene la storia perché non mi sono interessato più di tanto e di conseguenza non voglio esprimere un giudizio sul fatto in sé.

Mi ha dato però molto fastidio, come sempre, la falsa morale e l'incompletezza delle informazioni sul caso del leone ucciso in Zimbabwe.
E' stato descritto come una barbara uccisione perpetrata da un dentista statunitense durante una battuta di caccia....e peraltro non mi pare che questo si discosti molto dalla realtà. Mi ha dato molto da pensare invece la reazione mondiale per questo avvenimento...e probabilmente non solo a me.

Di seguito vi riporto un articolo uscito sul New York Times il 04-08-2015 da Goodwell Nzou uno studente in "molecular and cellular biosciences" all'università Wake Forest.
Per intenderci un ragazzo dello Zimbabwe che vive negli USA!!

Quanto meno è sicuramente un punto di vista diverso che può completare l'informazione:

"
In Zimbabwe, We Don’t Cry for Lions
By GOODWELL NZOU
AUGUST 4, 2015
Winston-Salem, N.C. — MY mind was absorbed by the biochemistry of gene editing when the text messages and Facebook posts distracted me.

So sorry about Cecil.

Did Cecil live near your place in Zimbabwe?

Cecil who? I wondered. When I turned on the news and discovered that the messages were about a lion killed by an American dentist, the village boy inside me instinctively cheered: One lion fewer to menace families like mine.

My excitement was doused when I realized that the lion killer was being painted as the villain. I faced the starkest cultural contradiction I’d experienced during my five years studying in the United States.

Did all those Americans signing petitions understand that lions actually kill people? That all the talk about Cecil being “beloved” or a “local favorite” was media hype? Did Jimmy Kimmel choke up because Cecil was murdered or because he confused him with Simba from “The Lion King”?

In my village in Zimbabwe, surrounded by wildlife conservation areas, no lion has ever been beloved, or granted an affectionate nickname. They are objects of terror.

When I was 9 years old, a solitary lion prowled villages near my home. After it killed a few chickens, some goats and finally a cow, we were warned to walk to school in groups and stop playing outside. My sisters no longer went alone to the river to collect water or wash dishes; my mother waited for my father and older brothers, armed with machetes, axes and spears, to escort her into the bush to collect firewood.

A week later, my mother gathered me with nine of my siblings to explain that her uncle had been attacked but escaped with nothing more than an injured leg. The lion sucked the life out of the village: No one socialized by fires at night; no one dared stroll over to a neighbor’s homestead.

When the lion was finally killed, no one cared whether its murderer was a local person or a white trophy hunter, whether it was poached or killed legally. We danced and sang about the vanquishing of the fearsome beast and our escape from serious harm.

Recently, a 14-year-old boy in a village not far from mine wasn’t so lucky. Sleeping in his family’s fields, as villagers do to protect crops from the hippos, buffalo and elephants that trample them, he was mauled by a lion and died.

The killing of Cecil hasn’t garnered much more sympathy from urban Zimbabweans, although they live with no such danger. Few have ever seen a lion, since game drives are a luxury residents of a country with an average monthly income below $150 cannot afford.

Don’t misunderstand me: For Zimbabweans, wild animals have near-mystical significance. We belong to clans, and each clan claims an animal totem as its mythological ancestor. Mine is Nzou, elephant, and by tradition, I can’t eat elephant meat; it would be akin to eating a relative’s flesh. But our respect for these animals has never kept us from hunting them or allowing them to be hunted. (I’m familiar with dangerous animals; I lost my right leg to a snakebite when I was 11.)

The American tendency to romanticize animals that have been given actual names and to jump onto a hashtag train has turned an ordinary situation — there were 800 lions legally killed over a decade by well-heeled foreigners who shelled out serious money to prove their prowess — into what seems to my Zimbabwean eyes an absurdist circus.

PETA is calling for the hunter to be hanged. Zimbabwean politicians are accusing the United States of staging Cecil’s killing as a “ploy” to make our country look bad. And Americans who can’t find Zimbabwe on a map are applauding the nation’s demand for the extradition of the dentist, unaware that a baby elephant was reportedly slaughtered for our president’s most recent birthday banquet.

We Zimbabweans are left shaking our heads, wondering why Americans care more about African animals than about African people.

Don’t tell us what to do with our animals when you allowed your own mountain lions to be hunted to near extinction in the eastern United States. Don’t bemoan the clear-cutting of our forests when you turned yours into concrete jungles.

And please, don’t offer me condolences about Cecil unless you’re also willing to offer me condolences for villagers killed or left hungry by his brethren, by political violence, or by hunger."

L'articolo, completo di migliaia di commenti, è al seguente link:
In Zimbabwe non piangiamo per i leoni


Concludo come ho fatto per tutto il post usando parole non mie:

“Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere che cosa succede.” 

Papa Francesco

giovedì 23 luglio 2015

vollI vollEY...volAI, ma volERO'?

Altra società, altra città, altre persone, altra vita e altri obiettivi.
Anche quest'anno si cambia e si riparte....l'importante è non fermarsi mai!
Civita Castellana sto arrivando!!

https://youtu.be/CaWZ3bh_cO4

mercoledì 13 maggio 2015

Campioni ai Fori Imperiali





“I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall'interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere resistenza fino all'ultimo minuto, devono essere un po' più veloci, devono avere l'abilità e la volontà. Ma la volontà deve essere più forte dell'abilità.”
Muhammad Ali
 
Il nuovo modo politically correct di chiamare i disabili è "diversamente abili" ...direi molto più giusto  e preciso.
Conoscendo alcune persone con disabilità di vario tipo ho capito che non hanno per forza meno capacità (o abilità che dir si voglia) di noi! Semplicemente, sono in grado di fare le stesse cose che facciamo noi "bipedi vedenti" in un altro modo, cercando altre strade: integrazione è un guadagno morale e pratico per tutti! Integrare significa conoscere più soluzioni e arricchirsi guardando il mondo da un altro punto di vista, pensando il mondo con "occhi" e mente diversi....e capire che se vogliamo che qualcosa succeda dobbiamo essere noi i primi a metterci in azione per farla accadere!!!
Nulla è impossibile se lo si vuole!!! 

giovedì 30 aprile 2015

Funamboli e fenomeni

"Per raggiungere il successo in qualsiasi settore, si deve diventare padroni di quel settore, conoscerlo da ogni punto di vista, nei minimi dettagli."
E. L. James, Cinquanta sfumature di grigio





Questo articolo mi è piaciuto molto e lo riporto così com'era scritto. E' di Silvia Raccagni ed è un post del suo blog per Volleyball.it, sito specializzato nel raccontare la pallavolo.
Il nome del suo blog è " "Il Lato B"...La pallavolo vista da un altro punto di vista... Tutto quello che... vede una pallavolista"!!!!

"
Ci son fenomeni e fenomeni…

Ci son fenomeni e fenomeni... chi lo fa, chi si sente e chi lo è!

Ho visto atleti fisicamente impressionanti ma svogliati...
Ho visto atleti grandi negli atteggiamenti ma piccoli in campo...
Ho visto atleti che solo chiamarli "atleti" è un insulto...
Ho visto atleti con scarsi doti fisiche sopperire con tecnica e tenacia....


...Ma i veri atleti per me, quelli che ho sempre guardato con gli occhi che brillano son coloro che hanno l'INTELLIGENZA SPORTIVA... non quelli che fanno mille punti per forza, non quelli scenici.... no... son quelli che fanno quadrare il tutto, quelli che se li togli dal campo non sai il perché eppure qualcosa non gira, quelli che fanno le cose giuste al momento giusto, quelli rispettosi e intelligenti, quelli che non son per forza professionisti ma fantasticamente PROFESSIONALI.

C’è un’eleganza in certi atleti che supera quella della giacca e cravatta, eppure loro non sono i primi ad impressionarti, spesso non sono loro ad esser osannati e idolatrati nei palazzetti, loro di solito vengono appena dopo e se un giocatore è amato sia dagli spalti che dallo spogliatoio c’è solo da farsi fare l’autografo e tenerselo nel portafogli.

C’è un modo di guardare i giocatori dagli spalti e un modo di guardarli quando hanno la tua stessa maglia perché quando sei parte del pubblico l’occhio e il cuore vengono subito attratti da coloro che fanno tanti punti, o che son molto plateali e spettacolari, ma quando ti alleni le dinamiche son tutte diverse.

“LORO” li vedi lì senza pubblico i VERI FENOMENI, nella grandezza della loro semplicità, sono quelli che arrivano per primi ad allenamento, quelli che non gli senti mai dire “oggi non ho voglia” o “speriamo di finire presto”, quelli che raccolgono sempre i palloni prima di andare a bere, quelli che minuziosamente si fasciano le dita prima di allenamento o di una partita come se fosse il loro “buongiorno”, li vedi nelle piccole gestualità ed accortezze che hanno con una spontaneità disarmante.

“LORO” sono il bello di questo sport, quelli che non smetteresti mai di guardare quando si allenano perché innamorati di ciò che fanno, loro che hanno la “pacca sulla spalla” per ogni compagno, dal più piccolo al più grande, loro che non ti dicono cosa devi fare ma te lo mostrano dandone esempio, quelli che si mettono in discussione in prima persona, quelli che trovano sempre un modo di sorridere e di rendere tutto sempre naturale.

“LORO” sono quelli che in ogni esercizio ricercano la perfezione, sono quelli che hanno bene in testa che non si finisce mai di migliorarsi e imparare, sono quelli che la strada corretta ce l’hanno segnata nel DNA, sono quelli che sembrano non sentire mai la tensione nelle partite riuscendo comunque a viverle di tutto cuore, son quelli che al di sotto di una certa prestazione non scendono mai e che non puoi permetterti di togliere dal campo perché sarebbe come abbattere le fondamenta ad una casa.

Quando hai la fortuna di poter indossare la stessa maglia, devi essere una spugna, assorbire tutto ciò che fanno, guardarli e imparare perché gli atleti così son davvero pochi e son quelli che porterai sempre dentro di te come un esempio da seguire dentro e fuori dal campo.

Sono quegli atleti che nella confusione di una partita con il pubblico che urla, allenatori che vorrebbero entrare in campo, compagni che tremano, li guardi nella loro serenità di chi sa chiaramente che le cose possano andar bene o male senza affrontarla con la paura di sbagliare ma vivendole come una possibilità in positivo, son quei giocatori a cui daresti la “palla che scotta”.

Ciò che rende unici questi atleti è il giusto equilibrio tra umiltà e consapevolezza, nel loro sapere che il meglio di se stessi vada dato a 360 gradi e non solo nel gioco, credo che giocatori così debbano essere d’esempio per tutti perché la parola “SPORTIVO” non è rappresentata solo da un attacco nei tre metri.

Sono rari da trovare ma quando ne incontri anche solo uno sulla tua strada fidati che leggendo avrai già pensato a lui/lei perché atleti così non si dimenticano. "





...A proposito di equilibrio, dote secondo me fondamentale nella vita sociale di tutti i giorni, vi lascio con una frase che mi fa pensare molto....direttamente dal film "Matrix":

 


"Agente Smith: Desidero condividere con te - Morpheus - una geniale intuizione che ho avuto, durante la mia missione qui. Mi è capitato mentre cercavo di classificare la vostra specie. Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d'istinto sviluppano un naturale equilibrio con l'ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l'unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un'altra zona ricca. C'è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un'infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura."

mercoledì 11 febbraio 2015

La gioia del podio

E alla fine ce l'abbiamo fatta: vincitori della 18° coppa Italia di serie A2....

Dopo un percorso incredibilmente lungo e difficile con ostacoli superati restando sempre insieme: una vera vittoria di squadra, di un gruppo rimasto unito come non si può riuscire a raccontare in poche parole!!!

E per di più in un campionato di una difficoltà estrema e livellatissimo verso l'alto: quest'anno in A2 è difficile vincere qualcosa...ma noi siamo riusciti!!!

E per me è la seconda!!!!!




Chieti 7-8 febbraio 2015

martedì 3 febbraio 2015

...poesia romana...

T'ho dato er core ma nun t'é bastato
"..."



Poeti der trullo

Sora Rosa e Serenella

Sora Rosa era 'n cucina
da le sei de la matina.
Impastava e ppoi stenneva
mai 'n minuto se sedeva

Serenella n'arrivava
eppure quanto ce contava!
Alla dieci s'é sdegnata
co' la faccia assai 'mbronciata:
"Serene', a disgraziata!
Che te sei dimenticata?
Forza, famo colazione
Spiega a mamma 'sto musone!"

Dopo fece più attenzione
e vide la disperazione:
"fija mia che t'é successo?
Perché stai a piagne adesso?"

"A ma', te lo confesso,
ma nun stamme a fa' er processo!
Me piaceva 'n delinquente...
è 'na stella, ma cadente.

'Na storia nata già perdente.
Mo, lui dice che se pente,
che me ama, che me vòle,
ma 'o conosco, so' parole:

fa sempre er gallo fori 'e scòle,
e 'ntanto er core a me me dòle".
"Se la testa t'é partita
non pòi dire ch'é finita,

segui 'l flusso de la vita.
Fija mia io t'ho avvertita.
L'amore nun se contraddice.
'Na brava mamma nun lo dice

perché te vò vede' felice,
ma come donna benedice
er coraggio d'anna 'n fonno.
E' 'na legge de sto monno.

Er dubbio rende più feconno
er tormento ch'è profonno.
E s'era l'omo giusto?
Se poi annava tutto a posto?

ste domande 'n c'hanno 'n costo,
dentro fanno 'n bel trambusto.
Se c'hai ancora er batticòre
abbandona ogni timore.

Potrebbe esse' er primo amore
oppure scopri ch'è 'n erore.
Si nun vivi nun lo sai,
si nun vivi sono guai!

La nostalgia de Roma me fa 'st'effetto...e 'n pensiero pe' conclude:
Nun ce sta 'na via demezzo pe' 'n'emozione: o ce sta o nun ce sta....quante vorte hai scritto "te vojo bene" co le mani che te tremavano e l'occhi gonfi de lacrime??

lunedì 26 gennaio 2015

La dipendenza non crea amore

Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito.
Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
- A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m'occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: Un vuoto grande e niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:
- Non fumare, veh!
Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l'ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent'anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette... che non sono le ultime.
 La coscienza di Zeno, Italo Svevo (Aron Hector Schmitz)




Di seguito vi propongo un estratto di un articolo di Johann Hari pubblicato sull'Huffington Post United States e tradotto dall'inglese all'italiano da Stefano Pitrelli. Johann Hari è un giornalista scozzese che, oltre a scrivere per The Independent, è apparso anche in The Huffington Post, New York Times, il Los Angeles Times, The New Republic, The Nation, Le Monde, El Pais, The Sydney Morning Herald e Ha'aretz. Nel 2009 è stato nominato da The Daily Telegraph come una delle persone più influenti sulla sinistra in Gran Bretagna.
Hari ha anche pubblicato il libro “Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs“


La più probabile causa della dipendenza è stata scoperta - e non è ciò che credete
Pubblicato sul blog dell'Huffington Post il 24/01/2015 h 18:25

Sono ormai passati cent'anni da quando le droghe sono state proibite per la prima volta - e nel corso di questo lungo secolo di guerra alla droga, i nostri insegnanti e i governi ci hanno raccontato una storia sulla dipendenza. Una storia tanto radicata nelle nostre menti che la diamo per assodata. Pare ovvia. Sembra palesemente vera. Lo credevo anch'io, fino a quando tre anni e mezzo fa non mi sono imbarcato in un viaggio di 30mila miglia per lavorare al mio nuovo libro, Chasing The Scream: The First And Last Days of the War on Drugs, alla scoperta di ciò che c'è veramente dietro alla guerra alla droga. Ciò che ho imparato lungo la mia strada è che quasi tutto ciò che c'è stato raccontato sulla dipendenza è sbagliato - e che di storia ne esiste un'altra, molto diversa, che aspetta ancora d'esser raccontata, se solo saremo disposti ad ascoltarla.

Se faremo nostra questa nuova storia ci toccherà cambiare non solo la guerra alla droga. Dovremo cambiare noi stessi.

Ciò che ho imparato l'ho appreso da un mucchio di persone straordinariamente diverse che ho incontrato lungo i miei viaggi. Dagli amici ancora vivi di Billie Holiday, da cui ho scoperto che il fondatore della guerra alla droga l'aveva perseguitata, contribuendo alla sua morte. Da un dottore ebreo portato di nascosto via dal ghetto di Budapest quand'era piccolo, per poi scoprire da adulto i segreti della dipendenza. Da un trafficante transessuale di crack a Brooklyn, concepito quando la madre, dipendente dal crack, fu stuprata dal padre, un agente della polizia di New York. Da un uomo che è stato relegato in fondo a un pozzo per due anni da una dittatura dedita alla tortura, per poi riemergerne e finire un giorno col venire eletto presidente dell'Uruguay, segnando così gli ultimi giorni della guerra alla droga.

Avevo un motivo piuttosto personale per andare alla ricerca di tutte queste risposte. Uno dei miei primi ricordi da piccolo è stato quella di provare a svegliare un mio parente, senza riuscirci. Da allora mi sono rigirato in testa uno dei misteri essenziali della dipendenza - cos'è che fa sì che ci sia gente che diventa tanto ossessionata da una droga, o da un determinato comportamento, da non riuscire più a fermarsi? Come si può fare per aiutare quella gente a tornare da noi? Crescendo, un altro dei miei parenti più stretti sviluppò una dipendenza da cocaina, e io iniziai un rapporto con una persona dipendente dall'eroina. In un certo senso la dipendenza per me era di casa.

Se tempo fa mi aveste chiesto quale fosse l'origine della dipendenza dalla droga, vi avrei guardato come degli idioti, e vi avrei detto: "Beh, la droga, no?". Non era difficile da capire. Ero convinto di averlo esperito in prima persona. Siamo tutti in grado di spiegarlo. Supponiamo che voi e me, insieme ai prossimi venti passanti, stabilissimo di somministrarci per venti giorni di fila una droga veramente potente. Siccome queste droghe sono dotate di forti ganci chimici, se il ventunesimo giorno poi smettessimo, i nostri corpi finirebbero per bramare quella sostanza. Una bramosia feroce. Saremmo dunque diventati dipendenti da essa. Ecco che cosa significa 'dipendenza'.

La teoria è stata in parte codificata grazie agli esperimenti compiuti sui topi - entrati nella psiche collettiva americana negli anni '80 grazie a una nota campagna pubblicitaria di Partnership for a Drug-Free America. Potreste ricordarla. L'esperimento è piuttosto semplice. Mettete un topo in gabbia, da solo, con due bottiglie d'acqua. Una contiene solo acqua. L'altra anche eroina o cocaina. Quasi ogni singola volta in cui l'esperimento viene ripetuto, il topo finirà ossessionato dall'acqua drogata, e tornerà a chiederne ancora fino al momento in cui morirà.

La pubblicità lo spiegava così: "C'è solo una droga in grado d'indurre tanta dipendenza, e nove topi di laboratorio su dieci ne faranno uso. Ancora. E ancora. Fino alla morte. Si chiama cocaina. E a voi può fare lo stesso".

Tuttavia negli anni '70 un docente di psicologia a Vancouver di nome Bruce Alexander notò qualcosa di strano in questo esperimento. Il topo viene messo in una gabbia da solo. Non ha altro da fare che somministrarsi la droga. Che succederebbe allora, si chiese, se lo impostassimo diversamente? Così il professor Alexander costruì un 'parco topi'. Una gabbia di lusso all'interno della quale i topi avrebbero avuto a disposizione delle palline colorate, il miglior cibo per roditori, delle gallerie nelle quali zampettare e tanti amici: tutto ciò a cui un topo metropolitano avrebbe potuto aspirare. Che cosa sarebbe accaduto in quel caso, si chiedeva Alexander?

Nel 'parco topi' tutti ovviamente finivano per assaggiare l'acqua di entrambe le bottiglie, non sapendo che cosa ci fosse dentro. Ma ciò che successe in seguito fu sorprendente.

Ai topi che facevano una bella vita l'acqua drogata non piaceva. Perlopiù la evitavano, consumandone meno di un quarto rispetto ai topi isolati. Nessuno di loro morì. E mentre tutti i topi tenuti soli e infelici ne facevano uso pesante, ciò non accadeva ad alcuno di quelli immersi in un ambiente felice.

All'inizio pensai che si trattasse soltanto di una stranezza dei topi, finchè non scoprii che - nello stesso periodo dell'esperimento del 'parco topi' - c'era stato il suo equivalente umano. Si chiamava guerra in Vietnam. La rivista Time scriveva che fra i soldati americani l'uso di eroina era "comune quanto quello della gomma da masticare", e che ce n'erano delle prove concrete: stando a una ricerca pubblicata negli Archives of General Psychiatry circa il 20 per cento dei soldati americani in quel Paese erano diventati dipendenti dall'eroina. In tanti se ne sentirono comprensibilmente terrorizzati; convinti che alla fine della guerra in patria sarebbe rientrato un enorme numero di tossicodipendenti.

La verità è che circa il 95 per cento dei soldati che avevano sviluppato quella dipendenza - stando alla medesima ricerca - in seguito semplicemente non si drogarono più. In pochi furono costretti alla riabilitazione. Il fatto è che erano passati da una gabbia terrificante a una piacevole, per cui smisero di anelare alla droga.



Il professor Alexander ritiene che questa scoperta contesti in modo profondo sia il punto di vista destrorso, per cui la dipendenza non è che una questione 'immorale' generata dagli eccessi dell'edonismo festaiolo, sia quello liberal per cui la dipendenza è quel male che attecchisce all'interno di un cervello alterato dalle sostanze chimiche. Anzi, argomenta, la dipendenza è una forma d'adattamento. Non sei tu. È la tua gabbia.

Dopo la prima fase del 'parco topi' il professor Alexander portò avanti il test. Tornò a ripetere gli esperimenti originari, quelli in cui i topi venivano lasciati da soli e facevano compulsivamente uso della droga. Lasciò che ne facessero uso per cinquantasette giorni - una quantità di tempo sufficiente ad agganciarli. Poi li portò fuori dall'isolamento, collocandoli all'interno del 'parco topi'. Voleva capire se, una volta sviluppata una dipendenza, il cervello risultasse talmente alterato da non potersi più riprendere. Se le droghe in effetti s'impossessavano di te. Ciò che accadde risultò - ancora una volta - stupefacente. I topi mostravano qualche problema d'astinenza, ma smettevano presto di farne uso intensivo, tornando a vivere una vita normale. La gabbia buona li aveva salvati (i riferimenti precisi a tutte le ricerche a cui faccio riferimento sono nel libro).

Quando per la prima volta incappai in tutto questo rimasi perplesso. Che senso aveva? Questa nuova teoria criticava in maniera talmente radicale ciò che ci era stato detto che sembrava non potesse esser vera. Ma più scienziati intervistavo, più consultavo le loro ricerche, più scoprivo cose che non sembravano aver alcun senso - a meno che non si prendesse in considerazione questo nuovo approccio.

Ecco l'esempio di un esperimento che si sta conducendo, e che un giorno potrebbe riguardarvi direttamente. Se oggi v'investissero e subiste una frattura al bacino, vi verrebbe probabilmente somministrata la diamorfina, nome medico dell'eroina. Nell'ospedale in cui vi troverete ci sarà tanta altra gente a cui viene somministrata l'eroina per lunghi periodi, per attenuarne il dolore. L'eroina che vi darà il medico sarà molto più pura e potente di quella adoperata dai tossici per strada, costretti a comprarla da spacciatori che la tagliano. Ragion per cui, se la vecchia teoria della dipendenza fosse valida - sono le droghe a causarla, perché fanno sì che il tuo corpo ne senta il bisogno - la conseguenza sarebbe ovvia. Un mucchio di gente dovrebbe lasciare l'ospedale per finire alla ricerca di una dose per strada, assecondando la dipendenza che avrebbero sviluppato.

Ma ecco la cosa strana: questo praticamente non succede mai. Come il medico canadese Gabor Mate mi ha spiegato per la prima volta, coloro che ne fanno uso medico poi semplicemente smettono, pur essendo stata loro somministrata per mesi. La medesima droga, fruita per la medesima quantità di tempo, trasforma chi ne fa uso per strada in tossici disperati, lasciando immutati i pazienti d'ospedale.

Se siete ancora convinti - come anch'io un tempo - che la dipendenza sia causata dai ganci chimici, la cosa non avrà alcun senso. Ma se credete alla teoria di Bruce Alexander, tutto torna. Il tossico per strada è un po' come i topi della prima gabbia, isolato, solo, con un'unica fonte di consolazione a portata di mano. Il paziente d'ospedale è come il topo della seconda gabbia. Si prepara a tornare a casa, a una vita in cui sarà circondato dalla gente che ama. La droga è la stessa, l'ambiente però è diverso.

Questo ci fornisce un'intuizione che va ben oltre il bisogno di comprendere i tossicodipendenti. Il professor Peter Cohen sostiene che gli esseri umani abbiano una profonda necessità di formare legami ed entrare in contatto gli uni con gli altri. È così che ci gratifichiamo. Se non siamo in grado di entrare in contatto con gli altri, entreremo in contatto con qualsiasi altra cosa - il suono di una roulette che gira, o l'ago di una siringa. Lui è convinto che dovremmo smettere del tutto di parlare di 'dipendenza', e chiamarla piuttosto 'legame'. Un eroinomane si lega all'eroina perché non è stato in grado di legare in modo altrettanto forte con nient'altro.

Ragion per cui il contrario della dipendenza non è la sobrietà. Ma il contatto umano.

Quando ho saputo tutto questo, ho scoperto di aver cominciato a convincermene, ma non sono comunque riuscito a liberarmi da un dubbio assillante. Tutti questi scienziati sono forse convinti che i ganci chimici non facciano alcuna differenza? Così me l'hanno spiegato - puoi diventare dipendente dal gioco d'azzardo, e nessuno penserà mai che t'inietti un mazzo di carte in vena. Per cui potrai avere il massimo della dipendenza, e nessun gancio chimico. Ho partecipato a un incontro dei giocatori d'azzardo anonimi di Las Vegas (col permesso di tutti i partecipanti, che sapevano di essere osservati) e mi sembravano chiaramente dipendenti, tanto quanto qualsiasi altro cocainomane o eroinomane io abbia mai incontrato. Eppure di ganci chimici sul tavolo da gioco non ce ne sono.

Di certo, però, ribattevo, le sostanze chimiche lo dovranno svolgere un qualche ruolo. Salta fuori che esiste un esperimento in grado di rispondere in termini molto precisi a questa domanda. L'ho scoperto leggendo il libro The Cult of Pharmacology, di Richard DeGrandpre.

Tutti concordano sul fatto che il fumo della sigaretta sia uno dei più grandi generatori di dipendenza. I ganci chimici del tabacco derivano da una droga al suo interno chiamata nicotina. Quando nei primi anni '90 sono stati sviluppati i cerotti alla nicotina ci fu un grande ottimismo - i fumatori di sigaretta avrebbero potuto godersi tutti gli amati ganci chimici senza le sporche (e letali) controindicazioni del fumo. Sarebbero stati liberi.

Ma la Direzione generale della sanità ha scoperto che appena il 17,7 per cento dei fumatori di sigarette sono in grado di mettere adoperando i cerotti alla nicotina. Ora, non è proprio roba da nulla. Se le sostanze chimiche rappresentano il 17,7 per cento della dipendenza, come si è dimostrato, si parla comunque di milioni di vite rovinate in tutto il mondo. Ciò che però si scopre, ancora una volta, è che la storia che ci è stata insegnata sui ganci chimici come Causa della Dipendenza, per quanto vera, non è che un frammento all'interno di un mosaico più vasto.

Le implicazioni per l'ormai centenaria guerra alla droga sono notevoli. Quest'enorme crociata - che come ho avuto modo di osservare uccide gente dai centri commerciali messicani alle strade di Liverpool - si fonda sulla convinzione che sia necessario eliminare fisicamente una vasta quantità di sostanze chimiche perchè s'impossessano dei cervelli della gente e ne causano la dipendenza. Ma se non sono le droghe a portare alla dipendenza - se anzi a causarla è quel senso di scollegamento dagli altri - tutto questo non ha alcun senso.

Ironicamente la guerra alla droga non fa che alimentare i macro fattori che portano alla dipendenza. Ad esempio mi sono recato in una prigione in Arizona - 'Tent City' - dove per punirli per l'uso di droga i detenuti vengono costretti per settimane e settimane all'interno di minuscole celle d'isolamento in pietra (le chiamano 'il Buco'). Cioè quanto di più vicino si possa arrivare a ricreare per gli uomini le gabbie che garantivano la dipendenza letale dei topi. E quando poi quei detenuti ne fuoriescono, la fedina penale impedirà loro di essere assunti - garantendone per sempre l'isolamento. L'ho visto accadere in diversi casi a persone che ho incontrato in giro per il mondo.

Esiste un'alternativa. Si può costruire un sistema concepito per aiutare i tossicomani a rientrare in contatto col mondo - lasciandosi la dipendenza alle spalle.

Non è teoria. Succede davvero. L'ho visto coi miei occhi. Quasi quindici anni fa il Portogallo aveva una delle situazioni peggiori di tutta Europa quanto a diffusione degli stupefacenti, con l'1 per cento della popolazione dipendente da eroina. Avevano provato con la guerra alla droga, e il problema non faceva che peggiorare. Così decisero di fare qualcosa di drasticamente diverso. Stabilirono di depenalizzare tutti gli stupefacenti, rinvestendo il denaro che prima spendevano per arresto e detenzione del tossicomane, e adoperandolo invece per rimetterlo in comunicazione - coi propri sentimenti e con la società più ampia. Il passo determinante è quello di assicurargli un'abitazione stabile e un posto di lavoro sociale così da offrirgli uno scopo nella vita, e una ragione per alzarsi dal letto. Li osservavo mentre venivano aiutati all'interno di ambulatori ricchi di calore umano e accoglienti, per imparare a tornare in contatto coi propri sentimenti, dopo anni di trauma e di silenzioso stordimento dovuto alle droghe.

Uno degli esempi di cui sono venuto a conoscenza è un gruppo di tossicodipendenti a cui è stato offerto un prestito per mettere in piedi una piccola azienda di traslochi. D'un tratto erano diventati un gruppo, legarono tutti fra loro, e con la società, e si fecero responsabili della cura dell'altro.

I primi risultati stanno arrivando. Una ricerca indipendente del British Journal of Criminology ha scoperto che dal momento della sua totale depenalizzazione le dipendenze sono crollate, e l'uso di stupefacenti da iniezione è diminuito del 50 per cento. Lasciatemelo ripetere: l'uso di stupefacenti da iniezione è diminuito del 50 per cento. Il risultato della depenalizzazione è stato un successo talmente chiaro che in pochi in Portogallo aspirano a tornare al vecchio sistema. Il primo oppositore della depenalizzazione, nel 2000, era stato Joao Figueira, il più importante poliziotto antidroga del Paese. All'epoca lanciava quel genere di avvertimenti che ci si aspetterebbe dal Daily Mail o da Fox News. Ma quando poi ci siamo incontrati a Lisbona, mi ha spiegato come le sue previsioni non si siano avverate, e come oggi lui speri che tutto il mondo segua l'esempio del Portogallo.

Tutto ciò non riguarda solo i tossicodipendenti a cui voglio bene. Riguarda tutti noi, perché ci costringe a pensare a noi stessi in maniera diversa. Gli esseri umani sono animali sociali. Abbiamo bisogno legare, di entrare in contatto e di amare.”

Una considerazione consequenziale si trova quasi verso la fine del pezzo e riguarda veramente tutti gli abitanti di questa era sempre più social:


La frase più saggia del ventesimo secolo appartiene a E.M. Forster: "Mettetevi in contatto". Ma noi abbiamo creato un ambiente e una cultura che ci isolano da ogni forma di connessione, o che ce ne offrono solo la parodia generata da internet. La crescita delle dipendenze è il sintomo di un male profondo del modo in cui viviamo - volgendo costantemente lo sguardo all'ennesimo gadget luccicante da acquistare, piuttosto che agli esseri umani intorno a noi.

Lo scrittore George Monbiot l'ha chiamata "l'epoca della solitudine". Abbiamo creato società umane all'interno delle quali isolarsi da ogni legame è più facile che mai prima d'ora. Bruce Alexander - l'ideatore del 'parco topi' - mi ha spiegato come per troppo tempo non abbiamo fatto altro che parlare della riabilitazione dell'individuo dalla dipendenza. Ciò di cui abbiamo bisogno di parlare oggi è la riabilitazione sociale - un modo per riabilitare noi tutti, insieme, dal male dell'isolamento che ci sta avvolgendo come una spessa coltre di nebbia.

Ma queste nuove scoperte non rappresentano esclusivamente una sfida politica. Non sono solo le nostre menti che c'impongono di cambiare. Ma i nostri cuori.

(…)

Un'ultima precisazione: il titolo del post è una frase tratta dal libro "Il diario" di Anaïs Nin.



martedì 20 gennaio 2015

"Pensa un po'!!!" o "pensa un po'?!?!"

Quando hai eliminato l'impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verita'.
"Il segno dei quattro"

E' un errore enorme teorizzare a vuoto. Senza accorgersene, si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie, anziche' viceversa.
"Uno scandalo in Boemia"

Il modo migliore per chiarirsi le idee e' quello di spiegarlo a un'altra persona.
"Silver Blaze"

Il mondo e' pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare.
"Il mastino dei Baskerville"

Non sono d'accordo con coloro che annoverano la modestia tra le virtu'. Per un uomo dotato di logica, tutte le cose devono essere viste esattamente come sono. Sottovalutare se stessi significa allontanarsi dalla verita' almeno quanto sopravvalutare le proprie doti.
"L'interprete greco"

La mia vita non e' che un continuo sforzo per sfuggire alla banalita' dell' esistenza.
"La lega dai capelli rossi"
Arthur Conan Doyle




Siamo continuamente bombardati da notizie, input e informazioni varie. Basta aprire il sito dell'ANSA (agenzia nazionale stampa associata) per avere info rapide secche e veloci su tutto. Io lo faccio spesso: è molto comodo e molto veloce...e solitamente molto più efficace di un articolo intero. La differenza tra un pezzo argomentato e compiuto e una notizia descritta e definita in due righe é semplice e banale e Calvino la riassumerebbe in poche parole: rapidità, esattezza. Una notizia ansa è priva di parole inutili e opinioni...è la semplice esposizione di un fatto. Il punto è che questo tipo di notizie rappresenta forse neanche l'1% di quelle che giungono a noi...e ciò comporta che spesso il nostro pensiero sia influenzato. Ovviamente non voglio parlare di teorie complottistiche o tentativi da parte di personaggi più o meno “importanti” di dirigere il corso degli eventi o le masse....lungi da me: è un discorso che non sono in grado di fare e soprattutto non mi interessa fare.



Mi sono fatto un'idea di quanto appena detto attraverso l'osservazione dei social...è un'osservazione molto limitata ma credo sufficiente per notare alcune piccole cose. La prima che mi è saltata in mente è che la maggior parte delle notizie su cui noi giornalmente mettiamo la nostra attenzione riguarda fatti, persone, leggi, tradizioni o luoghi a noi completamente sconosciuti. Ciò porta a un errore basilare: formuliamo ipotesi e portiamo avanti conversazioni senza sapere esattamente quello su cui stiamo argomentando...anzi: per far aderire i nostri ragionamenti ai fatti, spesso, involontariamente, travisiamo o alteriamo i fatti stessi.

In generale siamo abituati al fatto che gli uomini disprezzano cio' che non comprendono e spesso addirittura non cercano di comprendere ciò che non conoscono. Sillogismo facile: disprezziamo ciò che non conosciamo...
Perché?
Boh...!

Con ciò non voglio fare riferimenti a fatti recenti di tipo terroristico quali quelli in Francia o in Nigeria...il mio ragionamento è più terra terra.
Mi piacerebbe semplicemente che si evitassero generalizzazioni proprio perché risulterebbero solo inefficaci semplificazioni: credo che ogni caso debba essere conosciuto perché ci si senta autorizzati a parlarne.
Generalizzare è il modo più semplice per deformare le realtà particolari confondendole con ciò che è “tutto”...un tutto appropriatamente indefinito.
La cosa più simile a quanto sto dicendo accade spesso nella politica italiana quando si fanno le leggi. Per capirci:
il governo approva un atto normativo con più norme. Una di queste è giusta, le altre sono ingiuste...ergo le norme di quel tale atto normativo non vanno create perché sbagliate...si perde una legge giusta per tutte quelle sbagliate...o viceversa se ce ne fosse stata una sbagliata che viene nascosta, o meglio giustificata, da quelle giuste(il famoso “male necessario”!).

Angolo serio: “In diritto un atto normativo (o legge in senso materiale) è un atto giuridico che ha come effetto la creazione, modificazione o abrogazione di norme generali e astratte di un determinato ordinamento giuridico in base alle norme sulla produzione giuridica vigenti nello stesso ordinamento.” fonte wikipedia

Gli altri motivi che possono traviare i nostri ragionamenti:
  • la fonte delle notizie (e vabbé...lo so...ovvio)
  • la periodicità e la frequenza con cui vengono riproposte
  • le conseguenze che un fatto porta nella nostra vita

Penso sia ovvio anche il secondo punto. L'esempio di questi giorni in Italia? Si parla moltissimo dell'elezione del presidente della Repubblica e si è smesso di parlare della manovra del governo. Se è stato deciso a tavolino dai poteri forti, come taluni affermano, non lo so...ma sicuramente, basandoci sui fatti, una notizia sta oscurando l'altra...e ciò è possibile anche perché, fa ridere dirlo, sono due notizie lontane anni luce dagli italiani. Le manovre del governo ci sono incomprensibili finché non ci colpiscono direttamente e il presidente della repubblica è una figura che non ha influenze immediate nella nostra vita quotidiana. Molto più interessante e discusso in maniera concreta potrebbe essere un eventuale caro benzina per esempio. Con ciò non voglio affermare che tra la gente comune non si parli di politica e cose di stato...semplicemente lo si fa come lo si potrebbe fare di un partita di calcio o della macchina nuova.

Ricapitolando: siamo bombardati di input che per forza di cose ci obbligano a portare la nostra attenzione in una determinata direzione. La maggior parte di queste notizie hanno la caratteristica di essere molto distanti da noi.
Queste due ultime frasi le prendiamo come ipotesi di partenza per il prossimo ragionamento.
Qual è l'errore comune secondo me? Parlare senza sapere. Discutere senza approfondire. Io credo che la curiosità, la ricerca autonoma delle informazioni e il confronto con gli altri siano il più semplice sistema di conoscenza e di integrazione. Non è facile la ricerca delle notizie.
Ma soprattutto non è facile il confronto con il diverso perché, troppo spesso, mi ripeto, disprezziamo ciò che non conosciamo.
Ciò che non conosciamo è per me il tesoro più grande che abbiamo: la nostra maggior fonte di ricchezza...ma abbiamo voglia di metter del coraggio per cercarlo e tenercelo stretto??
Io credo che un'attenzione al diverso, un confronto, un'analisi di quello che abbiamo davanti possano portare a giuste deduzioni (per usare le parole di Sir Arthur Conan Doyle) e renderci la vita più interessante e più bella.



E chiudo così:
“Non è bello che tutti si debba pensare allo stesso modo, è la differenza di opinioni quella che rende possibili le corse dei cavalli.”
Mark Twain